E’ stata l’attenzione per gli aspetti sociali e il desiderio di raccontare storie che fin da subito ha contaminato la fotografia di Mauro Pinotti.

Il suo progetto “Fragile ” punta l’attenzione sul silenzioso dramma dei padri separati, uomini spesso alla deriva con difficoltà economiche senza casa e allontanati dai figli.

Sembra un paradosso, ma la Convenzione sui diritti del fanciullo germogliò in quel ghetto di Varsavia dove la stessa dignità della persona venne annullata dalle tenebre della follia umana.

Alla base della “Convenzione – meglio nota come Convenzione di New York ed approvata il 20 novembre 1989 – sta, infatti, un “documento polacco” elaborato pedagogisti, psicologi, storici, filosofi e sociologi nel 1979 durante la Giornata del bambino di Varsavia, la cui Sessione scientifica internazionale si era tenuta appositamente nel centenario della nascita Janusz Korczak – il medico-pedagogista ebreo-polacco martire con i bambini dell’orfanotrofio da lui ideato e diretto – come segno di riconoscimento verso la sua persona e la sua opera a favore dei bambini del ghetto.

L’opera di Korczak è la base dei Diritti dei minorenni: aldilà dei 54 articoli di cui consta, la Convenzione si può condensare nel concetto di Magna Charta Libertatis come egli stesso aveva già anticipato nel testo Come amare un bambino del 1914-1929.

Il Diritto è quello dell’inclusione sociale e etico-morale da parte dell’adulto e delle istituzioni da lui create, e, di più, al rispetto e alla considerazione del bambino in quanto persona.

Si tratta del Diritto del bambino al riconoscimento della sua interiorità, ad una voce che sia ascoltata profondamente, una creatività da liberare nell’ideale dell’emancipazione dell’infanzia e dell’adolescenza.

Un’infanzia e un’adolescenza che possono essere d’aiuto all’adulto nella comprensione autentica e liberatoria di se stesso, soprattutto per quanto concerne la relazione con l’Altro, il recupero della creatività anche spicciola, e la concezione della proprietà che da privata (escludente) diviene propria (includente), così come intende il bambino che tende ad aprirsi e a giocare con chiunque, senza distinzioni, senza obiezioni, senza discriminazioni.

Due gli articoli portanti della Convenzione di New York, il primo e il terzo.

L’art.1 ci informa infatti che bambino è ogni essere umano al di sotto del 18° anno d’età.

Il rilievo rasenta il clamoroso, ma questo è Korczak: Il Diritto del bambino al rispetto, perché, sì, il Bambino richiede protezione e valorizzazione, ascolto non ingannevole, bontà e soprattutto il termine mai desueto amore.

Bisogna trovare la pazienza e la calma e soprattutto utilizzare sempre più del tempo per il bambino e con il bambino.

Tutto il resto del vivere adulto è corollario, ovvero è il sostentamento doveroso per l’adulto quanto per il piccolo.

L’art. 3, ha una finalità pratica e individua nell’interesse del bambino il criterio guida per ogni decisione che lo riguarda: “In tutte le azioni riguardanti bambini, se avviate da istituzioni di assistenza sociale, private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o corpi legislativi, i maggiori interessi del bambino/a devono costituire oggetto di primaria considerazione”.

I due articoli citati sono fondamentali per comprendere in sintesi lo spirito della Convenzione, e ci interrogano su quanto il Diritto del Bambino sia davvero rispettato dagli adulti e dalle Istituzioni, anche nei Paesi cosiddetti democratici.

Dario Arkel

I giovani italiani escono di casa ad un’età (30,1) più vicina ai maltesi (30,7) che non ai francesi e tedeschi (23,7) o agli inglesi (24,7). È un evidente segno del fallimento delle politiche familiari e per i giovani del nostro paese.

Ora che la Corte di Cassazione (n. 17183/20) ha definitivamente sdoganato il principio di autoresponsabilità anche riguardo ai figli, sarà felice il buon Tommaso Padoa Schioppa che, nel 2007 ebbe il coraggio di dire “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. È un’idea importante”.

Con buona pace di Veltroni che la sacrificò sull’altare del politicamente corretto e la retrocesse a “battuta infelice”, e del centrodestra che, qualche anno dopo fece lo stesso nei confronti del proprio ministro, Renato Brunetta, che – difronte all’ennesima discutibile sentenza di condanna di un padre al mantenimento di una figlia ultratrentenne – invocava una legge per favorire l’uscita di casa dei maggiorenni: “i bamboccioni sono vittime di un sistema di cui devono fare il mea culpa i genitori.I bamboccioni ci sono perché si danno garanzie solo ai padri, perché le università funzionano in un certo modo, perché i genitori si tengono i privilegi e scaricano i rischi sui figli. La colpa è dei padri che hanno costruito questa società a misura di loro stessi”.

I padri (e le madri), però, non hanno il monopolio delle colpe.

Tra i tanti che hanno sicuramente colpe vi è, ad esempio, l’Associazione Nazionale Magistrati secondo cui la proposta di mettere un limite di età all’obbligo di corrispondere il mantenimento al figlio era sbagliata “non tiene conto del grado di maturazione del figlio e della sua capacità di gestire l’assegno” con ciò certificando il fallimento educativo del mantenimento indiretto.

L’esigenza di un cambio di passo è un dato su cui non è più possibile discutere.

Basti guardare al Rapporto Eurostat (2019) secondo cui i giovani italiani lasciano la casa di famiglia per andare a vivere da soli quando ormai sono uomini e donne che altrove hanno già messo su famiglia.

Senza guardare alla solita Scandinavia dove i giovani vanno a vivere da soli ad un’età media inferiore ai 21 anni, il fatto che i giovani italiani escano di casa ad un’età (30,1) più vicina ai maltesi (30,7) che non ai francesi e tedeschi (23,7) o agli inglesi (24,7) è un evidente segno di fallimento delle politiche familiari e per i giovani del nostro paese.

Al ritardo contribuisce certamente lo scarso incentivo che hanno gli studenti ad impegnarsi nello studio: secondo il Consorzio Alma Laurea, nel 2018, l’età media dei laureati di primo livello era rispettivamente di 24,7 e di 27 anni per i laureati magistrali a ciclo unico e di 27,3 per i laureati magistrali biennali.

Le condizioni economiche sono relativamente importanti: secondo Banca d’Italia (2018) sia tra i giovani inattivi (15-19 anni) che tra i giovani adulti che lavorano (30-34 anni), la tendenza degli italiani a vivere insieme ai genitori è più forte rispetto agli omologhi statunitensi (82% vs 51% nel primo caso, 28% vs 21% nel secondo caso).

La causa è abbastanza evidente: il dibattito su questi temi si svolge all’insegna di un populismo diseducativo e deresponsabilizzate secondo cui ai giovani tutto è dovuto in virtù di “un diritto fondamentalmente tiranno perché tale proprio in ragione del soggetto che ne è titolare” (L. Pomodoro).

I genitori non sono, dunque, i soli responsabili del mix di rassegnazione ed arrendevolezza con cui i giovani guardano al loro futuro e che ne rallenta il percorso verso l’autonomia.

Il punto non è, perciò, solo quello di come accompagnare il processo di emancipazione attraverso, magari, maggiori e più innovativi programmi di student housing per venire incontro al fabbisogno abitativo dei giovani studenti prendendo spunto dai paesi del centro-nord Europa, o di ampliare la platea dei beneficiari: il punto è di uscire dalla retorica del “prima i giovani” e creare un ecosistema di regole incentrato sul principio di autoresponsabilità.

Perché – come dice il prof. Andreoli all’HuffingtonPost – “Non si fa del bene ai giovani dicendo loro che devono essere messi al primo posto e che vanno aiutati.  È ora di finirla di dire che <<devono avere spazio, poverini>>! Devono assumersi la responsabilità di guidare una società. E per farlo non basta avere le macchine e i soldi, ma una profonda preparazione, senso di responsabilità e sacrificio, una parola che non si usa più”.

Smettiamola allora con il paternalismo e l’ambiguità di aiutare i giovani lasciandoli vivere comodamente tra le rassicuranti mura domestiche, come succede con il reddito di cittadinanza senza chiedere di restituire alcunché alla società.

Utilizziamo, ad esempio, a questo scopo i soldi del Recovery Fund per aiutare i giovani ad uscire di casa all’insegna dell’autoresponsabilità: avviamo un programma di social housing destinato a chi non ha una casa o un reddito ma si impegna seriamente a trovarlo accettando anche il sacrificio di trasferirsi lontano dai propri cari pur di trovare un lavoro che lo renda autonomo.

Quella di Padoa Schioppa è più che un’idea importante. E’ il modo migliore di far avanzare la nostra società.

Lettera del Presidente Salvatore Dimartino al Ministro della Salute Onorevole Roberto Speranza. Inviata il 17 Giugno 2020. Egregio Sig. Ministro Onorevole Roberto Speranza,

Non possiamo nascondere la delusione per la Sua risposta all’interrogazione n. 4-02045 proposta dall’On.le V. Valente in tema di alienazione parentale.

E questo non tanto per aver disconosciuto la validità scientifica della c.d. PAS cosa di cui non si discute in nessuna controversia sull’affido di figli minori.

Né per la Sua discutibile equiparazione delle responsabilità del genitore alienante con quelle del genitore alienato e del figlio nel determinismo di un fenomeno diverso, l’alienazione genitoriale, che Lei stesso riconosce esistere e consistere in “una relazione disfunzionale”.

E neppure siamo delusi per il sostegno morale che le Sue parole esprimono verso quei genitori alienanti che, attraverso comportamenti ostruzionistici ed abusi di diritto, impediscono l’accesso dei figli alla relazione con l’altro genitore.

Oppure per l’idea, tanto incostituzionale quanto preoccupante, che spetti al Ministero della Giustizia decidere cosa sia scientifico e cosa no e quali iniziative processuali spettino a ciascun genitore per difendere i diritti dei figli.

Né ci lasciamo abbattere per le velate minacce rivolte a quei professionisti che osassero diagnosticare “una relazione disfunzionale” tra genitore alienante nell’ambito di una controversia relativa all’affido dei figli.

Le Sue parole, Illustre Ministro, sono sale su ferite sanguinanti perché Lei ha preferito politicizzare il tema della tutela della salute dei figli di famiglie separate – avvallando così l’idea che la continuità delle relazioni familiari sia un tema che possa dividere e non unire l’opinione pubblica – invece di assumersi la responsabilità di dire il vero: il “benessere psicofisico e sociale” si fonda e consiste, innanzitutto, nella solidità della relazione con entrambi i suoi genitori ed ogni ostacolo nell’accesso a tale relazione rappresenta un rischio grave alla sua salute.

Pur avendo Lei ammesso che l’alienazione di un genitore rappresenta “un grave fattore di rischio evolutivo psicologico e affettivo del minore”, ha preferito dilungarsi a discutere di ciò che essa non è – la PAS – trascurando di dare atto del fatto che l’accudimento diretto dei figli rappresenta il golden standard per la tutela della loro salute secondo la pressoché unanime letteratura scientifica in materia.

Parlare delle caratteristiche delle pubblicazioni scientifiche è stato solo il tentativo inutile di creare una cortina fumogena attorno ai pericolosi effetti per la salute dei figli che le condotte alienanti producono sui figli, se è vero, com’è vero, che la Sua stessa parte politica – scelga Lei se, in un momentaneo intervallo di lucidità o per la speranza di un misero ritorno elettorale – proponeva di ”punire chi con sottili manovre e quotidiana opera di denigrazione induca un figlio a rifiutare i contatti con l’altro genitore, nonché chi si prefigge di raggiungere il medesimo risultato, ovvero eliminare del tutto l’altro genitore dalla vita del figlio, denunciandolo per reati infamanti mai commessi” (DDL 2049/2015 AS, Cirinnà, Lumia ed altri).

Il riconoscimento dell’esistenza di condotte alienanti, dunque, lungi dall’integrare alcuna violazione di norme deontologiche, evidenzia, come Lei stesso ha ammesso, un “grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico ed affettivo del minore” a fronte del quale non può continuare a volgere lo sguardo altrove come se nulla fosse.

A fronte di tutto ciò, onestà intellettuale vorrebbe che, oltre ad ascoltare chi da anni porta avanti una volgare speculazione politica su temi tanto delicati quanto trasversali, sentisse anche il bisogno di ascoltare anche la voce di coloro che, lontani da logiche partigiane ed atteggiamenti strumentali, sostengono una riforma delle attuali regole incentrata sul presupposto indefettibile che la salute dei figli di famiglie separate passa necessariamente dall’idea che la qualità della salute e del benessere dei figli passa dalla quantità di tempi di  convivenza e condivisione di momenti di vita con entrambi i genitori.

Confidando nella Sua disponibilità ad incontrarci,

si porgono i nostri migliori saluti.

Avv. Salvatore Dimartino

Presidente


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    Senza voler apparire troppo polemici con chi in questo momento delicato ha il compito di fare scelte complesse, appare evidente che l’idea di dover “comprovare”, ovvero, secondo la definizione del vocabolario Treccani, addurre “argomenti che si aggiungono ad altri o di fatti che confermino quanto già asserito per vero” per incontrare i “congiunti”, ovvero ai parenti e cioè “coloro che discendono da uno steso stipite” come precisa l’art. 74 cc e la conseguente affannosa rincorsa di ministri e uffici di gabinetto per spiegare che tra i “congiunti” sono ricompresi “gli affetti stabili”, prima che un surreale florilegio di burocrazia leguleia, è un chiaro segno di quanto sia necessaria una ridefinizione del ruolo dello Stato nella vita dei cittadini e relazioni familiari in particolare.

    Tanta macchinosità per individuare quale tipologia di spostamenti siano consentiti e quali no, infatti, non è solo frutto di una difficoltà linguistica o tecnica, ma la conseguenza di un approccio invasivo dello Stato nella vita delle persone che poco o nulla risponde ai canoni della tradizione liberale secondo cui “la famiglia è un’isola che il mare del diritto può solo lambire”.

    Arrivare al punto di ritenere consentito “incontrare congiunti”, invece di limitarsi semplicemente a regolamentare le modalità degli spostamenti necessari alla vita familiare, non serve a limitare o escludere le occasioni di contagio, ma è espressione di una cultura illiberale in cui l’individuo non è titolare di diritti propri e si pone in posizione di parità con lo stato ma ne è suddito e gode di mere concessioni revocabili in qualunque momento.

    La libertà e la dignità umana vanno salvaguardati anche quando si tratta di tutelare la salute pubblica: allo stato spetta di decidere se e come erogare i propri servizi ai cittadini, se e quali misure di protezione individuale e generali imporre allo scopo di tutelare la salute pubblica, limitare gli spostamenti avendo riguardo a criteri oggettivi (all’interno del comune o regione di residenza), o soggettivi purché direttamente connessi alla tutela della salute pubblica (quarantena per positività al virus), ma non si può entrare nel merito delle ragioni degli spostamenti senza ledere la dignità e la libertà delle persone, com’è pure è stato paventato salvo clamorose marce indietro, quando s’è discusso della possibilità di limitare gli spostamenti dei genitori separati per il trasferimento dei figli o, come adesso, per stabilire quali relazioni familiari ed affettive consentire e quali no.

    Altrimenti non solo saremo sempre difronte alla necessità di rincorrere precisazioni e specificazioni com’è avvenuto fino ad ora in modo alquanto imbarazzante, ma soprattutto avremo mutato la natura stessa della nostra democrazia: saremo cioè passati da una democrazia di tipo liberale in cui la libertà e la dignità di ogni singola persona sono la precondizione necessaria di uno stato democratico, ad uno stato in cui la maggioranza politica del momento, oggi pronta precisare che i congiunti sono anche le coppie di fatto ma che domani potrebbero essere solo quelle sposate con rito religioso cattolico, decide di volta in volta quali libertà concedere e quali no, a prescindere da eventuali condizioni di necessità o emergenza.

    Un cambio che potrebbe ben estendersi oltre le relazioni familiari ed affettive e riguardare le libertà economiche con conseguenze facilmente immaginabili: chi investirebbe, infatti, in un paese in cui lo stato decide chi e come ed in quali settori economici si può investire e quali no, e poi cambia le regole ad ogni elezione?

    Se la Costituzione ha sentito il bisogno, sin dall’art. 2, di impegnare la Repubblica, in tutte le sue articolazioni, nel riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, il motivo è evidente e varrebbe la pena tenerlo a mente ogni volta che si discute di persone e corpi sociali.

    Come affermò Aldo Moro illustrando i due emendamenti identici – a firma di Fanfani ed Amendola a riprova della comune visione su questi temi tra forze che si contrapponeva su altro – da cui è nato il citato art. 2: “Facendo riferimento all’uomo come titolare di un diritto che trova una sua espressione nella formazione sociale, noi possiamo chiarire nettamente il carattere umanistico che essenzialmente spetta alle formazioni sociali che noi vogliamo vedere garantite in questo articolo della Costituzione. E da un altro punto di vista, il parlare in questo caso di diritti dell’uomo, sia come singolo, e sia nelle formazioni sociali, mette in chiaro che la tutela accordata a queste formazioni è niente altro che una ulteriore esplicazione, uno svolgimento dei diritti di autonomia, di dignità e di libertà che sono stati riconosciuti e garantiti in questo articolo costituzionale all’uomo come tale. Si mette in rilievo cioè la fonte della dignità, dell’autonomia e della libertà di queste formazioni sociali, le quali sono espressioni della libertà umana, espressione dei diritti essenziali dell’uomo, e come tali debbono essere valutate e riconosciute. In questo modo noi poniamo un coerente svolgimento democratico; poiché lo Stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni”.

    Si tratta quindi semplicemente di indicare – evidentemente alla luce dei valori costituzionali e delle misure di protezione rese necessarie dall’emergenza sanitaria – le misure di protezione individuali e collettive con le quali consentire l’esercizio delle varie filiere di interessi della persona (relazioni familiari ed affettive, politiche, religiose, professionali, culturali…) senza mai escluderle del tutto.

    Evitando così, da un lato, atteggiamenti paternalistici francamente fuori luogo e palesi aberrazioni come nel caso dell’attività religiosa che, ad esempio, secondo quanto previsto dal DPCM del 26 aprile, sono sospese in ogni luogo, pubblico o privato, se svolte in forma di manifestazione organizzata mentre si lasciano aperti i luoghi di culto quasi che il contagio dipenda dalla presenza del sacerdote sull’altare.

    Oppure riguardo ai funerali religiosi, ammessi fino a 15 partecipanti (e perché non 16 o 14) senza alcun riferimento alle dimensioni del luogo, mentre continuano ad essere vietati i matrimoni (o i battesimi), a prescindere dal numero di presenti (e quindi anche del solo celebrante e dei nubendi), quasi che, ancora una volta, il contagio dipenda dalla natura del sacramento celebrato.

    Ciò che rende ben più che condivisibili le censure della Conferenza Episcopale Italiana e delle altre che domani volessero adire un TAR a difesa della propria libertà e di quella dei propri fedeli.

    C’è dunque da augurarsi che tanto il governo quanto tutte le forze politiche facciano tesoro della lezione dei costituenti e prendano finalmente atto che le relazioni familiari tendono ad assumere forme e caratteristiche le più varie e non ha alcun senso discriminare a seconda di caratteristiche esteriori quali la natura del vincolo o la convivenza: la disciplina delle relazioni familiari ed affettive – che sono quanto di più intimo e soggettivo possa esserci – deve essere la più neutrale e meno invasiva possibile ed avere come unico fine la salvaguardia della dignità di ogni singola persona e non terreno di incursioni burocratiche.

    Ancor più in tempo di pandemia.

    Soffocati come siamo dalla narrazione mainstream all’insegna di vittimismo e retorica allarmista, volgari pregiudizi e stupidi stereotipi di genere, il racconto di Megan Thowey – “Una nuova battaglia per chi è impegnato contro il coronavirus: la custodia dei figli” – pubblicato sul New York Times è una boccata d’ossigeno – oltre che una lezione di giornalismo e non solo – sin dal titolo.

    Due mesi di slogan deficienti e cori condominiali hanno devastato l’Italia.

    Oltre 21 mila morti ufficialmente da coronavirus (ma stime attendibili parlano di almeno il doppio).

    Medici e infermieri infettati in misura indecente.

    Studenti abbandonati a se stessi.

    Imprese distrutte.

    Lavoratori e famiglie letteralmente alla fame.

    E il governo che si trastulla a colpi di DPCM e task force sul nulla rifiutandosi di guardare la realtà.

    Una realtà insostenibile fatta di code per vendere i gioielli di famiglia e farina razionata manco fossimo in guerra per davvero. E anziani seppelliti senza neanche un saluto.

    Tutto questo per pura furia ideologica e smania di protagonismo. Costi quel che costi.

    Non perché non c’era il tempo di organizzarsi, o di prendere decisioni serie e coerenti. Fanatismo ideologico e calcolo personale. Nulla di più.

    Meglio spappagallare Churchill e violentare la Costituzione che procurare tamponi e reagenti.

    Meglio sproloquiare di resilienza femminile al contagio e piangere miseria regalando milioni a destra e a manca che aprire gli occhi sui problemi e sospendere assegni di mantenimento improponibili.

    Del resto cosa attendersi da governo fatto da una manica di scappati di casa ed un pugno di smidollati privo di ogni minima coerenza?

    Cos’altro sono Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Italia Viva?

    E soprattutto chi rappresentano se non la massa più ideologizzata e manipolabile del Paese che preferisce credere agli unicorni rosa che usare la testa e provare a riflettere?

    Come diceva qualcuno, però, la realtà consiste nel sapere che a sbattere la testa contro il muro, è la testa a rompersi e non il muro.

    Tempi paritari e mantenimento diretto arriveranno grazie ad un virus insignificante che rompere le loro teste vuote. Per il bene di tanti studenti che devono pure prendere lezioni da simili zucche.

    Soffocati come siamo dalla narrazione mainstream all’insegna di vittimismo e retorica allarmista, volgari pregiudizi e stupidi stereotipi di genere, il racconto di Megan Thowey – “Una nuova battaglia per chi è impegnato contro il coronavirus: la custodia dei figli” – pubblicato sul New York Times è una boccata d’ossigeno – oltre che una lezione di giornalismo e non solo – sin dal titolo.

    La pandemia ha indubbiamente aumentato la preoccupazione di molti genitori per possibili ricadute sulla salute dei figli legate al loro lavoro: ci sono tanti modi per viver queste preoccupazioni, ma soprattutto di raccontarle all’opinione pubblica.

    E la differenza non è di poco conto per chi voglia fare vera informazione.

    Non è infatti solo una questione di formale equilibrismo – due casi in cui, a parti invertite, si contendono i figli a colpi di ordinanze immediatamente emesse, contestate o revocate – ma di una descrizione rigorosa e puntuale delle vicende dove, la terzietà della giornalista, arriva al punto di dar conto della scelta di non rilasciare commenti da parte di uno dei genitori coinvolti senza che traspaia alcun giudizio di valore secondo la prima e fondamentale regola del buon giornalismo: separare i fatti dalle opinioni.

    Praticamente tutto quello che manca al giornalismo italiano, incapace di trattare il tema con il distacco necessario a far comprendere quanto trasversale all’intera società sia il problema e quanto deleterio sia un approccio manicheo, o peggio, divisivo.

    Che non significa che il tema non sia controverso ma che non c’è alcun atteggiamento strumentale o finalità di delegittimazione politica delle varie posizioni in campo ma la volontà di riflettere sulla sostanza delle cose e trovare soluzioni adeguate ai problemi.

    Dal racconto emerge una visione sinceramente puerocentrica ed una cultura degli interessi del minore che non può che destare ammirazione se si pensa che parliamo pur sempre di uno dei pochissimi paesi al mondo che non ha sottoscritto la Convenzione di New York sui diritti dei Fanciulli ma non per questo non sappia in cosa essi consistano, come si difendano e come di promuovano in concreto.

    Altro che le volgarità viste in certe trasmissioni televisive della tv di stato ai tempi del defunto ddl Pillon, dove addirittura è stata fatta passare l’idea che la bigenitorialità sia nociva alla salute fisica stessa dei figli.

    Per non parlare della magistratura che si premura addirittura di scrivere lettere aperte per sollecitare comportamenti collaborativi e responsabili e che quando decide tiene la barra dritta sui principi cardine di ogni democrazia liberale a partire da quello per cui tutti i genitori sono uguali davanti alla legge anche al tempo del coronavirus e non esistono presunti untori come vorrebbe la Commissione sul Femminicidio.

    E con questo possiamo tornare a respirare l’aria infetta di questo sfortunato belpaese.

    La Repubblica Italiana dev’essere fondata sull’elemosina di stato e non sul lavoro, la dignità umana o la libertà se, anche in tempi di epidemia, si continua a guardare alle sue conseguenze economiche e non alla salute ed al benessere psicofisico e sociale dei figli.

    Si continua, infatti, a non comprendere che la necessità di una riforma dell’affido condiviso non è una questione di madri vittime costrette a convivere con mariti e padri violenti come pensa la ministra Bonetti, di assegni da pagare come sostiene il buon Gian Ettore Gassani, o di frequentazioni da contrastare a colpi di procurato allarme come sostengono quelle che abbiamo denunciato e continueremo a denunciare.

    Una seria riforma dell’affido condiviso è necessaria per garantire la dignità dei figli e dei loro diritti e della libertà loro e dei loro genitori.

    Una dignità che è oggi calpestata da surreali provvedimenti di giudici che, novelli pediatri, somministrano ai figli dosi di maternità e di paternità a seconda delle ubbie del momento.

    Uno stato che “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali dove si realizza la sua personalità”, come afferma la Costituzione, impronta gli obblighi dei genitori verso i figli al principio di sussidiarietà e non scarica sulle spalle dei singoli il peso del welfare trasformando il mantenimento dei figli in mantenimento dell’ex coniuge.

    Uno stato che si è dato il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, impronta i doveri dei genitori verso i figli al contrasto alle stereotipie di genere e non le rafforza imponendo ruoli e compiti di cura a seconda del sesso.

    Uno stato “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, riconosce che prima della stabilità logistica viene la tutela della salute e benessere psicofisico e sociale dei figli come chiede l’OMS.

    Uno stato in cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” prevede per legge regole di frequentazione e mantenimento di automatica applicazione, per evitare che chi si separa usi i figli come arma contundente verso l’altro genitore.

    Questo, e non l’aiutino, andrebbe chiesto in questo momento in cui è evidente la tutela collettiva passa dalla responsabilità individuale e non viceversa.

    Altro che caso per caso e amenità varie.

    Con tutti i suoi limiti il ddl Pillon ha un’innegabile connotazione riformista: rendere effettivo il diritto dei figli ad avere due genitori presenti nella loro vita anche dopo la separazione.

    La sinistra l’ha bollato come medievale.

    La ministra Bonetti l’ha chiuso in un cassetto all’atto stesso del suo insediamento.

    Ma dopo che anche l’ex ministra, e sua collega di partito, Giulia Bongiorno l’ha definitivamente sepolto per mera convenienza politica, credo si possa, senza troppo scandalo, dire: morto il ddl Pillon, viva il ddll Pillon.

    È evidente come al buon senatore perugino l’aggettivo riformista non si attagli perfettamente; eppure e con tutti i limiti tecnici del caso, quel disegno di legge aveva, ed ha, un innegabile connotazione riformista: rendere effettivo il diritto dei figli ad avere i due genitori presenti nella loro vita con pari responsabilità ed opportunità anche dopo la loro separazione e contrastare le stereotipie di genere dentro la famiglia, lì dove cioè nascono.

    Un diritto, quello alla bigenitorialità, che trova fondamento oltre che nella Costituzione, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Convenzione dei Diritti dell’Infanzia ed alla cui attuazione aveva non poco contribuito la sinistra quando ancora, nei primi anni 2000, un autentico vento riformista soffiava nelle sue vele.

    Oggi però quell’ispirazione politica è venuta meno, e la sinistra – difronte alle resistenze culturali degli operatori del diritto che hanno dato applicazione meramente formale alla norma come pure essa stessa aveva in passato denunciato e tentato di superare – invece di spingere sull’acceleratore di un sano pragmatismo preferisce arroccarsi su posizioni ideologiche di retroguardia che fanno si che il modello di affido dei figli dopo la separazione dei loro genitori continui ad essere sempre solo ed esclusivamente monogenitoriale ed orientato secondo il sesso dei genitori.

    Come infatti dimostrano i dati ISTAT, nel 94% dei casi di separazione o divorzio è previsto che i figli continuino a vivere con la madre la quale riceve dal padre del denaro che serve a compensare le maggiori incombenze su di essa gravanti, più che per provvedere alle esigenze di mantenimento del figlio come dovrebbe essere, secondo “l’innegabile substrato culturale” per il quale “nonostante le conquiste che le donne hanno raggiunto in quanto a parità dei sessi, in Italia è quasi sempre, ancora oggi, la mamma a occuparsi dei figli. Ben contenta di farlo. Ed è, quasi sempre, il papà a pensare all’economia della famiglia e ad affidare alla madre la cura, l’accudimento quotidiano e la gestione dei figli” come paradossalmente sostenuto dagli oppositori della riforma.

    Il giudizio negativo dell’ISTAT, a dieci anni dall’introduzione delle nuove regole, non poteva essere più esplicito: “ad eccezione della drastica diminuzione della proporzione di figli minori affidati in modo esclusivo alle madri, tutti gli altri indicatori non hanno subito modificazioni di rilievo. In altri termini, al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso, che il giudice è tenuto a effettuare in via prioritaria rispetto all’affidamento esclusivo, per tutti gli altri aspetti considerati in cui si lascia discrezionalità ai giudici la legge non ha trovato effettiva applicazione”.

    Una chiusura, quella della sinistra, del tutto ingiustificata che non tiene neanche conto dei cambiamenti intervenuti nella società che da tempo condivide l’idea di politiche che favoriscano una maggiore condivisione delle incombenze familiari al fine di favorire l’accesso al lavoro delle donne.

    Come ha evidenziato dall’ISTAT nel 2011; “le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia potrebbero migliorare con una maggiore condivisione del carico di lavoro familiare all’interno della coppia. Sull’affermazione <<in una coppia in cui entrambi i partner lavorano a tempo pieno, le faccende domestiche dovrebbero essere divise in modo uguale>> è molto o abbastanza d’accordo l’87,4% (56,4% molto e 31,0% abbastanza) degli intervistati: 85,1% gli uomini e 89,8% le donne…Ancora più alto il consenso raccolto dall’affermazione <<gli uomini dovrebbero partecipare di più alla cura e all’educazione dei propri figli>>, con l’89,2% dei pareri positivi (rispettivamente 87,5% degli uomini e 90,8% delle donne)”.

    Per non dire dell’Europa che, al centro della propria strategia contro la povertà e l’esclusione sociale dei minori ha riconosciuto “lo stretto legame tra la partecipazione dei genitori al mercato del lavoro e le condizioni di vita dei loro figli”, e conseguentemente raccomandato agli stati membri di “favorire l’occupabilità e la partecipazione al mercato del lavoro dei genitori soli e del genitore con stipendio minore, promuovendo l’uguaglianza tra le donne e gli uomini, sia sul mercato del lavoro che a livello delle responsabilità familiari”.

    Se così è, e se i meriti del ddl non sono certo esclusivi del sen. Pillon visto che esistono numerosi altri ddl – n. 1403/13 Bonafede ed altri e n. 2049/15 Cirinnà ed altri tra i tanti – che evidenziano la necessità di una riforma delle attuali norme sull’affidamento dei figli in caso di separazione che vanno tutti nella stessa direzione su tutti gli aspetti rilevanti, non si comprende il rifiuto netto a qualunque forma di confronto nel merito dei problemi se non con l’intento di un’incomprensibile strumentalizzazione politica della vicenda.

    La domanda infatti, come si dice in questi casi, sorge spontanea: aveva senso lamentarsi ieri del fatto che il mantenimento indiretto annulla “gli aspetti più rilevanti della forma diretta del mantenimento, quelli relazionali: come l’occasione per far godere al figlio la gratificante sensazione che entrambi i genitori hanno su di lui uno sguardo attento e premuroso”, mentre oggi si è tornati difendere a spada tratta l’idea che i modi ed i tempi di frequentazione tra figli e genitori debbano essere diversi a seconda che si tratti del padre o della madre? Ha senso lamentarsi del più basso tasso di occupazione femminile e poi lasciare sulle sole donne il peso di crescere i figli dopo la separazione tanto ci pensa qualcun altro a pagare i conti a fine mese?

    Evidentemente no.

    E non solo perché è molto tafazziano contraddire se stessi pur di fare un dispetto al buon senso, prim’ancora che ad un avversario politico, ma perché riguardo ad un tema così importante come l’autonomia privata una sinistra moderna non può non essere autenticamente liberale e ispirare la propria azione politica al principio di sussidiarietà.

    Chiunque infatti comprende come determinando modi e tempi della relazione tra figli e genitori, lo stato non si limiti affatto a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, come chiede la Costituzione ma si ingerisca nella vita familiare ben oltre ciò che è realmente necessario fare.

    Non si tratta, infatti, di rinunciare alle istanze di solidarietà e protezione verso i più deboli ma di farlo tenendo conto che le soluzioni vanno individuate a partire dalla fisiologia dei fenomeni e non dalla loro patologia.

    La giustificazione principale del mantenimento indiretto, è infatti rappresentata dalla possibilità di una tutela immediata in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento. Senonché appare evidente che non abbia alcun senso pensare che il 94% di coloro che si separano non provvederebbero spontaneamente al mantenimento dei figli se non avessero puntata contro l’arma dell’esecuzione coatta. Per non dire che, a parti invertite, lo stesso identico problema esiste già oggi riguardo al genitore che riceve l’assegno che può usare l’assegno per fini diversi senza alcun controllo o sanzione in caso di inadempimento.

    In questo contesto, prevedere il mantenimento diretto – inteso nel senso nobile del termine di pari opportunità di frequentazione ed assolvimento dei compiti di cura, educazione ed istruzione dei figli, e non solo di sostegno economico delle spese – come forma di generalizzata applicazione e limitare la possibilità del mantenimento indiretto come modalità ristretta a talune specifiche fattispecie risponde innanzitutto all’esigenza di adottare una soluzione coerente con le esigenze dei figli e la responsabilità genitoriale.

    E’ infatti evidente che la forma diretta sia quella che meglio di ogni altra risponda alla duplice finalità di protezione della salute del minore e di salvaguardia dell’integrità della relazione familiare: un approccio pienamente puerocentrico che esprime l’essenza della definizione di salute adottata dall’OMS da intendersi non solo come assenza di malattia ma anche di benessere psicofisico e sociale.

    Così come è altrettanto evidente che solo la modalità di assolvimento diretto dei compiti di cura ed accudimento dei figli restituisca ai genitori la piena responsabilità della crescita dei figli, come raccomandato dall’Unione Europea, e si ponga come un formidabile strumento di contrasto alle stereotipie di genere che sono l’implicita conseguenza del mantenimento indiretto come dimostrato dai dati ISTAT.

    Non esistono dunque ragioni, se non un superficiale populismo, per continuare ad opporsi all’introduzione di una seria riforma della materia che metta concretamente, e non solo da un punto di vista formale, i figli al centro delle possibili soluzioni delle crisi familiari. E’ ora dunque che su questi temi la sinistra esca dal porto sicuro del luogocomunismo conservatore che l’ha allontanata da una sempre crescente fetta di elettorato e corra il rischio di solcare mari inesplorati confidando nel fatto che solo grazie al vento autenticamente riformista potrà tornare ad essere protagonista di un cambiamento sociale comunque inarrestabile.

    La bigenitorialità è un diritto dei figli e nessuno può toglierlo loro. Sono trascorsi 14 anni dalla riforma approvazione della Legge 54/06 ma per larga parte della magistratura è come se tutto questo tempo fosse trascorso inutilmente.

    Anzi peggio: nel regno incantato dei tribunali c’è chi, come la Corte d’Appello di Roma, continua a credere

    E poiché simili aberrazioni provengono da soggetti qualificati è evidente che il problema non è, solo, un problema di testo più o meno esplicito, di avvocati o consulenti più o meno corretti, ma di esplicito

    Sono trascorsi quattordici anni.

    Un tempo sufficiente ad un bambino dell’epoca per entrare nell’età della maturità e della responsabilità.

    Ed invece sembra che quel bambino sia regredito o addirittura nato morto a leggere quello che scrive la Corte d’Appello di Roma del diritto dei figli ad avere due genitori anche dopo la loro separazione.

    E’ vero la ““la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo”.

    Ma proprio perché la bigenitorialità non è un principio etereo che occorre dargli un contenuto concreto. Altrimenti è anarchia e prevaricazione. Non di un genitore sull’altro genitore, ma del genitore più violento e più prepotente sul proprio figlio.

    Altro che interesse del minore.

    Dal 2006 ad oggi sono aumentate le evidenze scientifiche sull’importanza della pienezza delle relazioni familiari per un figlio, centinaia di ricerche hanno evidenziato la gravità delle conseguenze sulla salute e sul benessere psicofisico dei figli in caso di perdita della relazione con uno dei due genitori, continue condanne dell’Italia dinanzi la Corte EDU per violazione del primo e più importante diritto di un figlio e ciononostante nulla è cambiato, per non dire che la condizione dei figli dei separati è addirittura peggiorata.

    Con la Suprema Corte che, ancora qualche giorno fa, si permette, il lusso di giudicare inadeguato un genitore separato solo perché lascia i figli con i nonni dimentica del fatto che i nonni hanno addirittura il diritto di stare con i nipoti. Per non dire del fatto che, ogni giorno, centinaia di migliaia di nonni portano o vanno a prendere i nipoti all’uscita da scuola: che facciamo, denunciamo i genitori di quei bambini per evasione dell’obbligo scolastico o abbandono di minore?

    Follia.

    Oppure, eversione. Tertium non datur.

    Perché, non ci sono altri termini per descrivere chi, all’indomani di un lunghissimo lavoro durato cinque anni, afferma del tutto impunemente che “L’affidamento condiviso è istituto che, per le sue finalità riguardanti l’interesse del minore dal punto di vista del suo sereno sviluppo, del suo equilibrio psico-fisico (anche in considerazione di situazioni socio-ambientali) e del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, non può certo far venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori a contribuire al mantenimento dei figli, mediante la corresponsione di un assegno a favore del genitore con il quale gli stessi convivono” (Cass. Civ. 18187/06).

    Un rifiuto costantemente denunciato “a dispetto del costante avanzare nel mondo occidentale del principio della bigenitorialità, in Italia… la sua concreta applicazione continua a incontrare sensibili ostacoli essenzialmente a causa di resistenze culturali degli operatori del diritto” (DDL 1403/2013, Bonafede ed altri), sono gli operatori del diritto, ed in primis la magistratura a non voler comprendere che l’affidamento condiviso ha ribaltato la scala delle priorità. “Infatti dal momento in cui è entrata in vigore la nuova normativa si è assistito al proliferare di sentenze in cui, soprattutto inizialmente, l’affidamento condiviso veniva illegittimamente negato per motivi non direttamente attribuibili al soggetto da escludere, ma esterni – a dispetto di quanto stabilito dall’articolo 337-quater (allora 155-bis), primo comma – come la reciproca conflittualità, l’età dei figli, la distanza tra le abitazioni. E non meglio sono andate le cose sul piano dei contenuti, dovendosi assistere allo smantellamento in sede applicativa dei pilastri portanti della riforma, benché diritti della personalità attribuiti ai figli e pertanto indisponibili” (DDL 2049/2015 Cirinnà ed altri).

    E quanto grave e quanto peggiorata sia la situazione e sia necessario intervenire in modo serio lo dimostra tutta la propaganda populista sul “Codice Rosso”, ed utilizza in modo del tutto surreale il tema della violenza in famiglia per chiedere di tornare alla preistoria del genitore che dal buco della serratura controlla che l’altro adempia, anche per suo nome e conto, ai doveri che entrambi hanno verso i figli.

    Con l’aggravante della malafede per coloro che continuamente pongono l’equazione padre separato uguale a uomo violento e della disonestà intellettuale di chi assimila assimila una denuncia ad una condanna.

    Una correlazione inammissibile a maggior ragione quando simili stupidaggini sono avanzate da esponenti politici o da avvocati che in questo modo non fanno altro che gettare fango su istituzioni e categorie professionali cui non meritano di appartenere.

    Il tutto condito dalla pelosa indignazione quando si chiede il riconoscimento dell’alienazione parentale come forma di violenza psicologica da punire alla stessa stregua di qualunque altra forma di violenza fisica.

    Chi ha realmente a cuore il bene dei figli non può continuare a restare indifferente e lasciare che essi continuino ad essere un premio da vincere nella lotteria della separazione e del divorzio.

    E’ ora di uscire dall’ambiguità, politica e magistratura hanno il dovere di dare contenuto concreto ed effettivo al diritto alle relazioni familiari partendo dalla loro più intima essenza rappresentata dalla continuità temporale che, salvo scelte responsabili dei genitori ed ostacoli oggettivi, deve essere limitata solo in presenza di precisi e verificabili indizi di trascuratezza, negligenza o abuso.

    Chi avrà il coraggio di farlo, avrà il merito di avere restituito affetto ai figli e civiltà al sistema.

    Chi volgerà altrove lo sguardo, o peggio, continuerà ad alimentare tutto ciò sarà solo un miserabile vigliacco ed un o squallido sciacallo.

    Tertium non datur.