Con tutti i suoi limiti il ddl Pillon ha un’innegabile connotazione riformista: rendere effettivo il diritto dei figli ad avere due genitori presenti nella loro vita anche dopo la separazione.
La sinistra l’ha bollato come medievale.
La ministra Bonetti l’ha chiuso in un cassetto all’atto stesso del suo insediamento.
Ma dopo che anche l’ex ministra, e sua collega di partito, Giulia Bongiorno l’ha definitivamente sepolto per mera convenienza politica, credo si possa, senza troppo scandalo, dire: morto il ddl Pillon, viva il ddll Pillon.
È evidente come al buon senatore perugino l’aggettivo riformista non si attagli perfettamente; eppure e con tutti i limiti tecnici del caso, quel disegno di legge aveva, ed ha, un innegabile connotazione riformista: rendere effettivo il diritto dei figli ad avere i due genitori presenti nella loro vita con pari responsabilità ed opportunità anche dopo la loro separazione e contrastare le stereotipie di genere dentro la famiglia, lì dove cioè nascono.
Un diritto, quello alla bigenitorialità, che trova fondamento oltre che nella Costituzione, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Convenzione dei Diritti dell’Infanzia ed alla cui attuazione aveva non poco contribuito la sinistra quando ancora, nei primi anni 2000, un autentico vento riformista soffiava nelle sue vele.
Oggi però quell’ispirazione politica è venuta meno, e la sinistra – difronte alle resistenze culturali degli operatori del diritto che hanno dato applicazione meramente formale alla norma come pure essa stessa aveva in passato denunciato e tentato di superare – invece di spingere sull’acceleratore di un sano pragmatismo preferisce arroccarsi su posizioni ideologiche di retroguardia che fanno si che il modello di affido dei figli dopo la separazione dei loro genitori continui ad essere sempre solo ed esclusivamente monogenitoriale ed orientato secondo il sesso dei genitori.
Come infatti dimostrano i dati ISTAT, nel 94% dei casi di separazione o divorzio è previsto che i figli continuino a vivere con la madre la quale riceve dal padre del denaro che serve a compensare le maggiori incombenze su di essa gravanti, più che per provvedere alle esigenze di mantenimento del figlio come dovrebbe essere, secondo “l’innegabile substrato culturale” per il quale “nonostante le conquiste che le donne hanno raggiunto in quanto a parità dei sessi, in Italia è quasi sempre, ancora oggi, la mamma a occuparsi dei figli. Ben contenta di farlo. Ed è, quasi sempre, il papà a pensare all’economia della famiglia e ad affidare alla madre la cura, l’accudimento quotidiano e la gestione dei figli” come paradossalmente sostenuto dagli oppositori della riforma.
Il giudizio negativo dell’ISTAT, a dieci anni dall’introduzione delle nuove regole, non poteva essere più esplicito: “ad eccezione della drastica diminuzione della proporzione di figli minori affidati in modo esclusivo alle madri, tutti gli altri indicatori non hanno subito modificazioni di rilievo. In altri termini, al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso, che il giudice è tenuto a effettuare in via prioritaria rispetto all’affidamento esclusivo, per tutti gli altri aspetti considerati in cui si lascia discrezionalità ai giudici la legge non ha trovato effettiva applicazione”.
Una chiusura, quella della sinistra, del tutto ingiustificata che non tiene neanche conto dei cambiamenti intervenuti nella società che da tempo condivide l’idea di politiche che favoriscano una maggiore condivisione delle incombenze familiari al fine di favorire l’accesso al lavoro delle donne.
Come ha evidenziato dall’ISTAT nel 2011; “le difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia potrebbero migliorare con una maggiore condivisione del carico di lavoro familiare all’interno della coppia. Sull’affermazione <<in una coppia in cui entrambi i partner lavorano a tempo pieno, le faccende domestiche dovrebbero essere divise in modo uguale>> è molto o abbastanza d’accordo l’87,4% (56,4% molto e 31,0% abbastanza) degli intervistati: 85,1% gli uomini e 89,8% le donne…Ancora più alto il consenso raccolto dall’affermazione <<gli uomini dovrebbero partecipare di più alla cura e all’educazione dei propri figli>>, con l’89,2% dei pareri positivi (rispettivamente 87,5% degli uomini e 90,8% delle donne)”.
Per non dire dell’Europa che, al centro della propria strategia contro la povertà e l’esclusione sociale dei minori ha riconosciuto “lo stretto legame tra la partecipazione dei genitori al mercato del lavoro e le condizioni di vita dei loro figli”, e conseguentemente raccomandato agli stati membri di “favorire l’occupabilità e la partecipazione al mercato del lavoro dei genitori soli e del genitore con stipendio minore, promuovendo l’uguaglianza tra le donne e gli uomini, sia sul mercato del lavoro che a livello delle responsabilità familiari”.
Se così è, e se i meriti del ddl non sono certo esclusivi del sen. Pillon visto che esistono numerosi altri ddl – n. 1403/13 Bonafede ed altri e n. 2049/15 Cirinnà ed altri tra i tanti – che evidenziano la necessità di una riforma delle attuali norme sull’affidamento dei figli in caso di separazione che vanno tutti nella stessa direzione su tutti gli aspetti rilevanti, non si comprende il rifiuto netto a qualunque forma di confronto nel merito dei problemi se non con l’intento di un’incomprensibile strumentalizzazione politica della vicenda.
La domanda infatti, come si dice in questi casi, sorge spontanea: aveva senso lamentarsi ieri del fatto che il mantenimento indiretto annulla “gli aspetti più rilevanti della forma diretta del mantenimento, quelli relazionali: come l’occasione per far godere al figlio la gratificante sensazione che entrambi i genitori hanno su di lui uno sguardo attento e premuroso”, mentre oggi si è tornati difendere a spada tratta l’idea che i modi ed i tempi di frequentazione tra figli e genitori debbano essere diversi a seconda che si tratti del padre o della madre? Ha senso lamentarsi del più basso tasso di occupazione femminile e poi lasciare sulle sole donne il peso di crescere i figli dopo la separazione tanto ci pensa qualcun altro a pagare i conti a fine mese?
Evidentemente no.
E non solo perché è molto tafazziano contraddire se stessi pur di fare un dispetto al buon senso, prim’ancora che ad un avversario politico, ma perché riguardo ad un tema così importante come l’autonomia privata una sinistra moderna non può non essere autenticamente liberale e ispirare la propria azione politica al principio di sussidiarietà.
Chiunque infatti comprende come determinando modi e tempi della relazione tra figli e genitori, lo stato non si limiti affatto a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, come chiede la Costituzione ma si ingerisca nella vita familiare ben oltre ciò che è realmente necessario fare.
Non si tratta, infatti, di rinunciare alle istanze di solidarietà e protezione verso i più deboli ma di farlo tenendo conto che le soluzioni vanno individuate a partire dalla fisiologia dei fenomeni e non dalla loro patologia.
La giustificazione principale del mantenimento indiretto, è infatti rappresentata dalla possibilità di una tutela immediata in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento. Senonché appare evidente che non abbia alcun senso pensare che il 94% di coloro che si separano non provvederebbero spontaneamente al mantenimento dei figli se non avessero puntata contro l’arma dell’esecuzione coatta. Per non dire che, a parti invertite, lo stesso identico problema esiste già oggi riguardo al genitore che riceve l’assegno che può usare l’assegno per fini diversi senza alcun controllo o sanzione in caso di inadempimento.
In questo contesto, prevedere il mantenimento diretto – inteso nel senso nobile del termine di pari opportunità di frequentazione ed assolvimento dei compiti di cura, educazione ed istruzione dei figli, e non solo di sostegno economico delle spese – come forma di generalizzata applicazione e limitare la possibilità del mantenimento indiretto come modalità ristretta a talune specifiche fattispecie risponde innanzitutto all’esigenza di adottare una soluzione coerente con le esigenze dei figli e la responsabilità genitoriale.
E’ infatti evidente che la forma diretta sia quella che meglio di ogni altra risponda alla duplice finalità di protezione della salute del minore e di salvaguardia dell’integrità della relazione familiare: un approccio pienamente puerocentrico che esprime l’essenza della definizione di salute adottata dall’OMS da intendersi non solo come assenza di malattia ma anche di benessere psicofisico e sociale.
Così come è altrettanto evidente che solo la modalità di assolvimento diretto dei compiti di cura ed accudimento dei figli restituisca ai genitori la piena responsabilità della crescita dei figli, come raccomandato dall’Unione Europea, e si ponga come un formidabile strumento di contrasto alle stereotipie di genere che sono l’implicita conseguenza del mantenimento indiretto come dimostrato dai dati ISTAT.
Non esistono dunque ragioni, se non un superficiale populismo, per continuare ad opporsi all’introduzione di una seria riforma della materia che metta concretamente, e non solo da un punto di vista formale, i figli al centro delle possibili soluzioni delle crisi familiari. E’ ora dunque che su questi temi la sinistra esca dal porto sicuro del luogocomunismo conservatore che l’ha allontanata da una sempre crescente fetta di elettorato e corra il rischio di solcare mari inesplorati confidando nel fatto che solo grazie al vento autenticamente riformista potrà tornare ad essere protagonista di un cambiamento sociale comunque inarrestabile.