I giovani italiani escono di casa ad un’età (30,1) più vicina ai maltesi (30,7) che non ai francesi e tedeschi (23,7) o agli inglesi (24,7). È un evidente segno del fallimento delle politiche familiari e per i giovani del nostro paese.

Ora che la Corte di Cassazione (n. 17183/20) ha definitivamente sdoganato il principio di autoresponsabilità anche riguardo ai figli, sarà felice il buon Tommaso Padoa Schioppa che, nel 2007 ebbe il coraggio di dire “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. È un’idea importante”.

Con buona pace di Veltroni che la sacrificò sull’altare del politicamente corretto e la retrocesse a “battuta infelice”, e del centrodestra che, qualche anno dopo fece lo stesso nei confronti del proprio ministro, Renato Brunetta, che – difronte all’ennesima discutibile sentenza di condanna di un padre al mantenimento di una figlia ultratrentenne – invocava una legge per favorire l’uscita di casa dei maggiorenni: “i bamboccioni sono vittime di un sistema di cui devono fare il mea culpa i genitori.I bamboccioni ci sono perché si danno garanzie solo ai padri, perché le università funzionano in un certo modo, perché i genitori si tengono i privilegi e scaricano i rischi sui figli. La colpa è dei padri che hanno costruito questa società a misura di loro stessi”.

I padri (e le madri), però, non hanno il monopolio delle colpe.

Tra i tanti che hanno sicuramente colpe vi è, ad esempio, l’Associazione Nazionale Magistrati secondo cui la proposta di mettere un limite di età all’obbligo di corrispondere il mantenimento al figlio era sbagliata “non tiene conto del grado di maturazione del figlio e della sua capacità di gestire l’assegno” con ciò certificando il fallimento educativo del mantenimento indiretto.

L’esigenza di un cambio di passo è un dato su cui non è più possibile discutere.

Basti guardare al Rapporto Eurostat (2019) secondo cui i giovani italiani lasciano la casa di famiglia per andare a vivere da soli quando ormai sono uomini e donne che altrove hanno già messo su famiglia.

Senza guardare alla solita Scandinavia dove i giovani vanno a vivere da soli ad un’età media inferiore ai 21 anni, il fatto che i giovani italiani escano di casa ad un’età (30,1) più vicina ai maltesi (30,7) che non ai francesi e tedeschi (23,7) o agli inglesi (24,7) è un evidente segno di fallimento delle politiche familiari e per i giovani del nostro paese.

Al ritardo contribuisce certamente lo scarso incentivo che hanno gli studenti ad impegnarsi nello studio: secondo il Consorzio Alma Laurea, nel 2018, l’età media dei laureati di primo livello era rispettivamente di 24,7 e di 27 anni per i laureati magistrali a ciclo unico e di 27,3 per i laureati magistrali biennali.

Le condizioni economiche sono relativamente importanti: secondo Banca d’Italia (2018) sia tra i giovani inattivi (15-19 anni) che tra i giovani adulti che lavorano (30-34 anni), la tendenza degli italiani a vivere insieme ai genitori è più forte rispetto agli omologhi statunitensi (82% vs 51% nel primo caso, 28% vs 21% nel secondo caso).

La causa è abbastanza evidente: il dibattito su questi temi si svolge all’insegna di un populismo diseducativo e deresponsabilizzate secondo cui ai giovani tutto è dovuto in virtù di “un diritto fondamentalmente tiranno perché tale proprio in ragione del soggetto che ne è titolare” (L. Pomodoro).

I genitori non sono, dunque, i soli responsabili del mix di rassegnazione ed arrendevolezza con cui i giovani guardano al loro futuro e che ne rallenta il percorso verso l’autonomia.

Il punto non è, perciò, solo quello di come accompagnare il processo di emancipazione attraverso, magari, maggiori e più innovativi programmi di student housing per venire incontro al fabbisogno abitativo dei giovani studenti prendendo spunto dai paesi del centro-nord Europa, o di ampliare la platea dei beneficiari: il punto è di uscire dalla retorica del “prima i giovani” e creare un ecosistema di regole incentrato sul principio di autoresponsabilità.

Perché – come dice il prof. Andreoli all’HuffingtonPost – “Non si fa del bene ai giovani dicendo loro che devono essere messi al primo posto e che vanno aiutati.  È ora di finirla di dire che <<devono avere spazio, poverini>>! Devono assumersi la responsabilità di guidare una società. E per farlo non basta avere le macchine e i soldi, ma una profonda preparazione, senso di responsabilità e sacrificio, una parola che non si usa più”.

Smettiamola allora con il paternalismo e l’ambiguità di aiutare i giovani lasciandoli vivere comodamente tra le rassicuranti mura domestiche, come succede con il reddito di cittadinanza senza chiedere di restituire alcunché alla società.

Utilizziamo, ad esempio, a questo scopo i soldi del Recovery Fund per aiutare i giovani ad uscire di casa all’insegna dell’autoresponsabilità: avviamo un programma di social housing destinato a chi non ha una casa o un reddito ma si impegna seriamente a trovarlo accettando anche il sacrificio di trasferirsi lontano dai propri cari pur di trovare un lavoro che lo renda autonomo.

Quella di Padoa Schioppa è più che un’idea importante. E’ il modo migliore di far avanzare la nostra società.