La bigenitorialità è un diritto dei figli e nessuno può toglierlo loro. Sono trascorsi 14 anni dalla riforma approvazione della Legge 54/06 ma per larga parte della magistratura è come se tutto questo tempo fosse trascorso inutilmente.

Anzi peggio: nel regno incantato dei tribunali c’è chi, come la Corte d’Appello di Roma, continua a credere

E poiché simili aberrazioni provengono da soggetti qualificati è evidente che il problema non è, solo, un problema di testo più o meno esplicito, di avvocati o consulenti più o meno corretti, ma di esplicito

Sono trascorsi quattordici anni.

Un tempo sufficiente ad un bambino dell’epoca per entrare nell’età della maturità e della responsabilità.

Ed invece sembra che quel bambino sia regredito o addirittura nato morto a leggere quello che scrive la Corte d’Appello di Roma del diritto dei figli ad avere due genitori anche dopo la loro separazione.

E’ vero la ““la bigenitorialità non è un principio astratto e normativo”.

Ma proprio perché la bigenitorialità non è un principio etereo che occorre dargli un contenuto concreto. Altrimenti è anarchia e prevaricazione. Non di un genitore sull’altro genitore, ma del genitore più violento e più prepotente sul proprio figlio.

Altro che interesse del minore.

Dal 2006 ad oggi sono aumentate le evidenze scientifiche sull’importanza della pienezza delle relazioni familiari per un figlio, centinaia di ricerche hanno evidenziato la gravità delle conseguenze sulla salute e sul benessere psicofisico dei figli in caso di perdita della relazione con uno dei due genitori, continue condanne dell’Italia dinanzi la Corte EDU per violazione del primo e più importante diritto di un figlio e ciononostante nulla è cambiato, per non dire che la condizione dei figli dei separati è addirittura peggiorata.

Con la Suprema Corte che, ancora qualche giorno fa, si permette, il lusso di giudicare inadeguato un genitore separato solo perché lascia i figli con i nonni dimentica del fatto che i nonni hanno addirittura il diritto di stare con i nipoti. Per non dire del fatto che, ogni giorno, centinaia di migliaia di nonni portano o vanno a prendere i nipoti all’uscita da scuola: che facciamo, denunciamo i genitori di quei bambini per evasione dell’obbligo scolastico o abbandono di minore?

Follia.

Oppure, eversione. Tertium non datur.

Perché, non ci sono altri termini per descrivere chi, all’indomani di un lunghissimo lavoro durato cinque anni, afferma del tutto impunemente che “L’affidamento condiviso è istituto che, per le sue finalità riguardanti l’interesse del minore dal punto di vista del suo sereno sviluppo, del suo equilibrio psico-fisico (anche in considerazione di situazioni socio-ambientali) e del perpetuarsi dello schema educativo già sperimentato durante il matrimonio, non può certo far venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori a contribuire al mantenimento dei figli, mediante la corresponsione di un assegno a favore del genitore con il quale gli stessi convivono” (Cass. Civ. 18187/06).

Un rifiuto costantemente denunciato “a dispetto del costante avanzare nel mondo occidentale del principio della bigenitorialità, in Italia… la sua concreta applicazione continua a incontrare sensibili ostacoli essenzialmente a causa di resistenze culturali degli operatori del diritto” (DDL 1403/2013, Bonafede ed altri), sono gli operatori del diritto, ed in primis la magistratura a non voler comprendere che l’affidamento condiviso ha ribaltato la scala delle priorità. “Infatti dal momento in cui è entrata in vigore la nuova normativa si è assistito al proliferare di sentenze in cui, soprattutto inizialmente, l’affidamento condiviso veniva illegittimamente negato per motivi non direttamente attribuibili al soggetto da escludere, ma esterni – a dispetto di quanto stabilito dall’articolo 337-quater (allora 155-bis), primo comma – come la reciproca conflittualità, l’età dei figli, la distanza tra le abitazioni. E non meglio sono andate le cose sul piano dei contenuti, dovendosi assistere allo smantellamento in sede applicativa dei pilastri portanti della riforma, benché diritti della personalità attribuiti ai figli e pertanto indisponibili” (DDL 2049/2015 Cirinnà ed altri).

E quanto grave e quanto peggiorata sia la situazione e sia necessario intervenire in modo serio lo dimostra tutta la propaganda populista sul “Codice Rosso”, ed utilizza in modo del tutto surreale il tema della violenza in famiglia per chiedere di tornare alla preistoria del genitore che dal buco della serratura controlla che l’altro adempia, anche per suo nome e conto, ai doveri che entrambi hanno verso i figli.

Con l’aggravante della malafede per coloro che continuamente pongono l’equazione padre separato uguale a uomo violento e della disonestà intellettuale di chi assimila assimila una denuncia ad una condanna.

Una correlazione inammissibile a maggior ragione quando simili stupidaggini sono avanzate da esponenti politici o da avvocati che in questo modo non fanno altro che gettare fango su istituzioni e categorie professionali cui non meritano di appartenere.

Il tutto condito dalla pelosa indignazione quando si chiede il riconoscimento dell’alienazione parentale come forma di violenza psicologica da punire alla stessa stregua di qualunque altra forma di violenza fisica.

Chi ha realmente a cuore il bene dei figli non può continuare a restare indifferente e lasciare che essi continuino ad essere un premio da vincere nella lotteria della separazione e del divorzio.

E’ ora di uscire dall’ambiguità, politica e magistratura hanno il dovere di dare contenuto concreto ed effettivo al diritto alle relazioni familiari partendo dalla loro più intima essenza rappresentata dalla continuità temporale che, salvo scelte responsabili dei genitori ed ostacoli oggettivi, deve essere limitata solo in presenza di precisi e verificabili indizi di trascuratezza, negligenza o abuso.

Chi avrà il coraggio di farlo, avrà il merito di avere restituito affetto ai figli e civiltà al sistema.

Chi volgerà altrove lo sguardo, o peggio, continuerà ad alimentare tutto ciò sarà solo un miserabile vigliacco ed un o squallido sciacallo.

Tertium non datur.